Raramente capita che un artista sappia essere così coraggioso e trasgressivo da spegnere le luci, le sovrastrutture, i colori e porta in scena se stesso, con le proprie fragilità, con il coraggio di mettersi quasi da parte per lasciare il palco alla sua musica.

Assaliti dai lumen, dai ledwall grandi come palazzi, dalle grafiche in 4K che urlano per catturare la nostra attenzione, distratta e frammentata, nell’era della comunicazione questo frastuono di luci è la prassi.
Ieri sera, durante l’ultima tappa del tour di Niccolò Fabi a Roma, non è successo nulla di tutto questo. E in quel “nulla” c’era tutto.
Il sipario sul tour si è chiuso con un sospiro collettivo. Tornare a casa, nella sua Roma, ha sempre un sapore diverso per Fabi, ma stasera il Parco della Musica vibrava di una solennità rara. Niccolò ha compiuto l’atto più rivoluzionario che un artista possa fare oggi: si è spogliato delle sovrastrutture e ha messo in scena la sua anima tra penombre e un cappellino che per sua stessa ammissione :” Serve per proteggermi un po’ “.
La rivoluzione della sottrazione
Nessun visual psichedelico a coprire i vuoti, nessuna immagine proiettata a suggerire cosa dovessimo provare. C’era solo lo spazio scenico, spogliato fino all’osso, ridotto all’essenza.
È stata una dichiarazione d’intenti, quasi un manifesto politico-emotivo: ascoltate. In un’epoca in cui “vedere” è diventato più importante di “sentire”, Fabi ci ha costretti dolcemente a chiudere gli occhi. Forse è tutto racchiuso nel titolo dell’ultimo album :” Libertà negli occhi” dove l’artista ci invita ad abbandonare preconcetti, giudizi, paletti e ritornare a quella purezza che ormai abbiamo dimenticato.
Una luce che accarezza
La scenografia era fatta di luci soffuse. Non fari accecanti da stadio, ma lampade calde, ambrate, che sembravano provenire da un salotto di casa o da un fuoco da campo acceso in una spiaggia d’inverno. Le ombre di Niccolò e dei suoi musicisti si allungavano sul fondo, giganti eppure familiari.
Questa penombra ha creato un effetto paradosso: meno vedevamo, più eravamo vicini. La luce bassa ha eliminato la distanza tra il palco e la platea, ha messo a nudo l’anima di un cantautore che ha fatto dell’essenzialità il suo manifesto. Niccolò nella sua timidezza si mostra senza filtri, cercando di riportare lo spettatore in un mondo dove poter guardare oltre le apparenze, riappropriarsi dell’ingenuità dei bambini è un augurio.
L’emozione senza filtri
Quando è partita “Costruire”, o le note basse di “Una somma di piccole cose”, non c’era distrazione possibile. La voce di Fabi, con quella sua grana inconfondibile che ti porta in frammento di vita vissuta, è arrivata dritta allo stomaco.
C’è stata una purezza disarmante in questa ultima data del tour. Niccolò si è offerto al suo pubblico senza la corazza della tecnologia, vulnerabile e potente allo stesso tempo. E Roma ha risposto con un abbraccio collettivo, tra standing ovation e appalusi avvolgenti. E se le lacrime solcavano il tuo viso su “Facciamo finta” questo abbraccio collettivo, questa comunità pazzesca era pronta a capirti, non a giudicarti. E anche piangere diventa un atto liberatorio e di condivisione.
Alla fine, quando le luci si sono accese la magia è rimasta lì, intatta. Ognuno di noi presenti era come se volessimo proteggere quell’intimità ritrovata. Niccolò Fabi ci ha ricordato che se togli tutto il rumore di fondo, quello che resta è l’unica cosa che conta davvero: l’umanità.
E stasera, Roma brillava di luce propria, nel buio più bello che si sia mai visto.



